"That which doesn’t kill us makes us stronger"




sabato 21 ottobre 2023

Education 2.0 e nuovi modelli educativi



Gigantium humeris insidentes

(Bernardo di Chartres)



Ogni progresso della scienza si costruisce sulla base della tradizione precedente. La vera rivoluzione di questo terzo millennio è che a tutti i livelli nessuna istituzione no profit può pensare di sopravvivere operando con modalità chiuse, standardizzate e senza attivare un’apertura al suo interno e al suo esterno che è la chiave fondamentale per instaurare con le persone rapporti di fiducia.

Il tema dell’education 2.0 si pone al centro dei nuovi modelli educativi e collaborativi. Far emergere, diffondere e sviluppare proprio Know-How è l’obiettivo centrale di ogni organizzazione. Allo scenario sopra descritto si è aggiunta la crisi economia e sociale generata dalla pandemia, dopo un primo momento di smarrimento le grandi organizzazioni si sono attrezzate per trasformare la gestione della crisi in opportunità.

L’adozione di soluzioni digitali ed esterne da parte delle Università non ha precedenti. In questo contesto gli ebook diventano strumenti per condividere la missione, la cultura e i valori di un’istituzione, potenziando anche il dialogo e l’interazione con la propria audience. Papa Ratzinger nel 2010 durante la giornata mondiale delle comunicazioni affermava: “Quanto più le moderne tecnologie creeranno relazioni più intense il mondo digitale amplierà i propri confini tanto più il sacerdote sarà chiamato ad occuparsene pastoralmente” Papa Francesco nel 2014, sempre durante la giornata mondiale delle comunicazioni affermava: “come si manifesta la “prossimità” nell’uso dei mezzi di comunicazione e nel nuovo ambiente creato dalle tecnologie digitali? Trovo una risposta nella parabola del buon samaritano, che è anche una parabola del comunicatore. Chi comunica, infatti, si fa prossimo.

E il buon samaritano non solo si fa prossimo, ma si fa carico di quell’uomo che vede mezzo morto sul ciglio della strada.  In questo mondo, i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri. In particolare internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. I principali vantaggi dell’ebook: Gli e-reader possono contenere contemporaneamente moltissimi libri, quindi sono comodi per chi vuole portare con sé molti titoli viaggiando “leggero”. Il numero di ebook che un e-reader può contenere varia in base al modello e alla memoria: in generale però i dispositivi in commercio ora ne possono contenere almeno 1000; Acquistare e scaricare gli ebook e di averli disponibili in pochi minuti; Impostare le caratteristiche del testo (font, grandezza, spazio tra le righe, eccetera); Leggere anche al buio o in penombra (nei modelli, sempre più diffusi, dotati di luce frontale regolabile); Cercare sul dispositivo una definizione o tradurre una parola straniera (la maggior parte ha integrato uno o più dizionari).

Negli ultimi anni, secondo un rapporto annuale dell’Associazione Italiana Editori (AIE), il mercato degli ebook in Italia è cresciuto di circa il 27 per cento rispetto agli anni precedenti al 2000. A favorire la crescita – come anche quella relativa agli acquisti di libri online – è stata la chiusura temporanea delle librerie dovuta alla pandemia, esi ritiene che questa situazione possa aver in parte modificato le abitudini di alcuni lettori, avvicinandoli a un formato precedentemente meno considerato. L’apra è in linea con il processo di digitalizzazione che permette la diffusione del propri ebook i n tutto il mondo.




sabato 2 gennaio 2021

Considerazioni dopo un anno di #pandemia e di guerra contro il #covid

In un anno di pandemia la maggior parte delle attenzioni e delle risorse sono state rivolte all'emergenza sanitaria e al disastro economico.

L'individuazione di queste due priorità è stata un'azione indispensabile, necessaria, coerente, giusta e legittima. La prima cosa a cui pensare è stata e dovrà continuare ad essere la capacità ricettiva degli ospedali, non solo per i malati di covid ma per le persone affette da qualsiasi patologia e bisognose di qualsiasi assistenza ospedaliera completa. Il ristoro economico verso le persone e le categorie danneggiate dalla pandemia è stato altrettanto indispensabile e dovrà continuare ad essere una assoluta priorità.

Tuttavia è altrettanto evidente che ci sono due conseguenze della pandemia che, al momento, sono abbastanza trascurate: 

- le conseguenze psicologiche della guerra al covid;

- l'impoverimento intellettuale.

Il tema psicologico riguarda in prima battuta la paura verso la traiettoria della malattia: il contagio, la paura del ricovero in ospedale, la solitudine, il timore di non essere curati nel modo migliore a causa dell'affollamento delle strutture ospedaliere e per lo lo stress a cui è sottoposto il personale medico/sanitario, e quindi, conseguentemente la paura di morire. Se va bene, la paura degli strascichi che il virus potrebbe lasciare. Ma gli aspetti psicologici vanno ben oltre la paura nei confronti della traiettoria della malattia e sono inerenti a traumi che derivano da:  chiusura coercitiva, restrizione sociale, impossibilità di viaggiare, paura del contagio, convivenze forzate. Possiamo continuare....la sospensione di qualsiasi iniziativa di sviluppo personale e/o professionale, la sospensione di progetti e iniziative finalizzate alla costruzione, per esempio, di una famiglia, la sospensione delle attività ricreative sportive, l'impossibilità di progettare e pianificare....ecc...ecc...Molti sono consapevoli di questi effetti, ma la sola consapevolezza, non accompagnata da un processo di elaborazione, non serve ad individuare strategie risolutive o strumenti di supporto. 

Il tema dell'impoverimento intellettuale, che significa non nutrirsi di arte, qualsiasi forma di arte, poiché musei, teatri, stadi, mostre, cinema, concerti sono inibiti, riguarda tutti e riguarda soprattutto i nostri bambini e ragazzi, che a scuola hanno subito il blocco di gite e viaggi, hanno visto improvvisamente sospese tutte le iniziative culturali e ricreative. Già la scuola....l'istituzione che con l'arrivo della pandemia si è dimostrata in assoluto la più rigida e resistente al cambiamento, ripiegata esclusivamente sull'osservazione delle norme burocratiche ed incapace, nella quasi totalità dei casi, di sviluppare soluzioni alternative e innovative finalizzate a sostenere bambini e ragazzi nell'enorme perdita che stanno subendo in quest'epoca di guerra.

L'istituzione scuola, primaria e secondaria, è stata incapace di produrre pensiero e sviluppare una nuova cultura a seguito dell'esplosione di una guerra biologica; in un'epoca dove nulla sarà come prima, la scuola né accompagna e nè sostiene i nostri ragazzi e bambini al cambiamento necessario, venendo meno alle responsabilità etiche che invece le competono.

E' opportuno calibrare con maggiore equilibrio la gestione delle prime due priorità (emergenza sanitaria e ristoro economico) con gli effetti psicologici e l'impoverimento intellettuale, con l'obiettivo di evitare un "impoverimento sociale collettivo".

Aspettarsi sempre qualcosa da qualcun altro, (per es. chi ci governa), non è l'unica soluzione, ma possiamo anche incominciare da noi stessi.







mercoledì 22 aprile 2020

Le priorità del sistema scolastico

A metà aprile, 191 paesi avevano chiuso tutte le loro scuole primarie e secondarie, colpendo quasi 1,6 miliardi di bambini. 

Il passaggio all'apprendimento remoto è stato irregolare. 
Alcuni sistemi sono stati in grado di formare insegnanti, implementare l'apprendimento remoto e creare servizi di supporto agli studenti in meno di una settimana. Altri sono ancora in difficoltà, vincolati dalla mancanza di accesso alla tecnologia o alle competenze del suo utilizzo. 
Affrontare queste disuguaglianze in un ambiente di apprendimento remoto è una sfida complessa. I sistemi scolastici devono adattarsi in molte dimensioni, al servizio degli studenti provenienti da una varietà di contesti. La vulnerabilità si presenta in molte forme: gli studenti a basso reddito, gli studenti immigrati, gli studenti con bisogni speciali, gli studenti più o meno raggiungibili dai sistemi di connessione. 

Non esiste un quadro chiaro di quanto tempo dovrà continuare un modello di apprendimento prevalentemente remoto. 

Quindi ci sono quattro priorità per i sistemi scolastici: 
  1. garantire il mantenimento della salute e della sicurezza di studenti, personale e comunità;
  2. ottimizzare l'apprendimento degli studenti;:
  3. supportare gli insegnanti e il personale scolastico; 
  4. stabilire una solida base operativa e finanziaria. 

In ogni caso, le questioni relative all'equità - ovvero garantire che siano soddisfatte le esigenze dei più vulnerabili - dovrebbero essere sempre al centro dell'attenzione anche dopo il ritorno degli studenti a scuola.

Mentre la curva iniziale del coronavirus si appiattisce, i governi e i sistemi scolastici devono fare delle scelte difficili su quando e come riaprire le scuole e con quale serie di protocolli di salute e sicurezza. Mentre lo fanno, può emergere una serie diversa di studenti e personale vulnerabili, ad esempio quelli che vivono con famiglie anziane o famiglie con compromissione immunitaria e quelli che sono particolarmente sensibili alle infezioni stesse. Sarà quindi necessario sostenere una qualche forma di apprendimento remoto, anche dopo che le scuole riapriranno le loro porte. Forse gli insegnanti più anziani o immuno-compromessi possono continuare a lavorare in sicurezza da casa per mantenere l'apprendimento remoto per gli studenti che non sono in grado di tornare a scuola.
Con molti genitori senza lavoro o costretti a indebitarsi, le scuole possono anche avere a che fare con vulnerabilità economiche più ampie e rispondere attraverso programmi specifici.
Anche in tempi di crisi, l'educazione conta. Fornire istruzioni di qualità è chiaramente una sfida nelle circostanze attuali; è necessario implementare i sistemi tecnologicamente avanzati sono in grado di implementare l'apprendimento online sincrono e asincrono.
L'imperativo in questo momento è quello di diffondere l'apprendimento remoto a quanti più studenti possibile, con particolare attenzione agli studenti e alle scuole più vulnerabili.
Dove c'è accesso ai dispositivi, connettività internet è possibile almeno iniziare creare processi per favorire il miglioramento continuo
Supportare i genitori è un pezzo fondamentale di questo puzzle. Molti genitori stanno bilanciando le proprie responsabilità di lavoro a distanza con aiutare i bambini con i compiti a scuola; altri hanno perso il lavoro e stanno lottando per rimanere a galla. Le scuole possono aiutare semplificando le cose per i genitori: comunicazioni chiare con ciò che è previsto e richiesto e le linee guida passo-passo sono molto utili. 
La valutazione è un altro tema complesso in queste circostanze;
qualunque sia l'approccio adottato, l'equità deve far parte del processo e occorre prestare attenzione a non istituzionalizzare i pregiudizi esistenti.

La profondità e l'ampiezza di queste tematiche diventeranno  ancora più evidenti quando gli studenti torneranno a scuola. 
La regolazione intelligente ed attenta del calendario scolastico potrebbe aiutare.

Saranno tutti temi da affrontare giorno dopo giorno, nella consapevolezza che il cambiamento è in atto ed inarrestabile.




venerdì 10 aprile 2020

Qualche policy e criterio di riferimento per applicare un corretto smart working


I criteri di flessibilità imposti dai processi di trasformazione digitale favoriscono l’introduzione del lavoro agile (o smart working) nelle organizzazioni. 

Si tratta di una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordi tra il dipendente e il datore di lavoro. E’ una modalità che genera vantaggi per entrambe le parti: l’azienda può liberare postazioni nei suoi uffici per dedicarle ad altre attività risparmiando sui costi mentre lo smart worker, lavorando da casa, concilia i tempi di vita e lavoro, oltre a risparmiare i costi e i tempi di trasferta verso l’ufficio.Per attuare un modello efficace di smart working occorre concentrarsi su tre aspetti fondamentali:

  • Layout fisico: anche le postazioni domestiche dove si fa smart working devono essere in linea con le normative vigenti, per garantire ergonomia e sicurezza;
  • Strumenti ICT: l’utilizzo di strumenti di enterprise social collaboration (chat, sistemi di videoconferenza, aree virtuali di lavoro condivise) è fondamentale per garantire relazioni costanti tra lo smart worker e i colleghi presenti in ufficio;
  • Policy e comportamenti: occorre definire in modo preciso regole e comportamenti per garantire la massima confidenzialità sulle informazioni condivise online e la massima efficacia nelle relazioni a distanza che saranno attuate dallo smart worker con i suoi colleghi in ufficio, e viceversa.
La regolamentazione delle attività e delle procedure previste per lo smart working è indispensabile anche per abbattere i possibili rischi di un utilizzo non corretto di questa nuova forma di lavoro: isolamento sociale della risorsa, difficoltà di coordinamento con i colleghi, dilatamento degli orari effettivi di lavoro anche in orario serale o notturno, e mancanza di controllo sulle attività svolte possono compromettere l’efficacia dello smart working, se non addiritutra generare impatti negativi sulle risorse coinvolte e, a cascata, su tutta l’organizzazione. Per questo anche gli aspetti legati al corretto work-life balance devono essere regolati con particolare attenzione.

L’attuazione dello smart working nelle organizzazioni segue tre fasi:

  • Sperimentazione: questa prima fase parte con una indagine interna che evidenzia quali sono le business unit che possono allocare in smart working le loro risorse interne. Si procede ad un assessment per individuare quali risorse coinvolgere, in base alle loro attitudini personali e alle competenze informatiche. Infine, le risorse individuate vengono coinvolte nella sperimentazione del progetto pilota, monitorando aree critiche e vantaggi in termini di produttività personale e aziendale;
  • Roll-out: una volta che il progetto pilota viene consolidato nei suoi aspetti organizzativi e nelle risorse coinvolte, si procede con fasi successive di estensione del numero di persone coinvolte nel progetto;
  • A regime: Infine, il progetto viene esteso a tutte le risorse eleggibili, e si procede al suo perfezionamento in corso d’opera.

sabato 21 marzo 2020

Digital Transformation, #giornalismo e #comunicazione politica

Intervista a Tommaso Labate, giornalista del Corriere della Sera, conduttore su La7 e conduttore su radio 2 di "Non è un paese per giovani"

1. Qual’è stato 'impatto della digital transformation nella tua professione di giornalista e nel tuo percorso professionale?

la digital transformation ha avuto un impatto molto significativo nella professione di giornalista; prima il tempo era scandito da appuntamenti fissi: il telegiornale ad una certa ora, i giornali che chiudevano le proprie edizioni ad un orario fisso, il flusso delle notizie era statico tant'è che nella storia anche recente della comunicazione politica moltissimi politici hanno commentato gli eventi o il caso del giorno intorno alle 19.00/19.15 perché erano sintonizzati col telegiornale delle 20. Questo aspetto è stato completamente rivoluzionato dalla presenza della DT perchè ora il flusso delle notizie non conosce alcun tipo di orario ed è continuo, basta scrivere su Twitter o su Facebook e il messaggio arriva. Il fatto che i TG lo riprendano è un aspetto fondamentale ma secondario rispetto ad una volta dove la tua comunicazione era orientata esclusivamente alla televisione, ai giornali e alle radio. Ciò da un lato ha modificato profondamente la comunicazione politica e dall'altro lato ha portato ha rivoluzionato il mondo dell’editoria si sgancia dalla cronaca per concentrarsi  sull'analisi.
Mi sono laureato nel 2002 e ho cominciato a lavorare al "il riformista" giornale molto ancorato alla stampa tradizionale, dotato solo del sito web. Ho seguito i canali e i percorsi tradizionali dell'apprendimento del mestiere, il rapporto diretto con le fonti. Ho inziato a sperimentare per caso i social media, tra questi segnalo in particolar modo Twitter, perché ero inviato la seconda edizione della Leopolda a Firenze, dove per un banale incidente avevo perso la connessione con l'agenzia Ansa, ho scoperto che c'era un modo alternativo di arrivare al testuale di quello che gli oratori dicevano sul palco. Questo modo alternativo era Twitter. Per la prima volta di fronte ad un oratore che la platea aveva sul palco,  una parte della platea non lo guardava negli occhi ma guardava in basso perchè twittava. Non avevo il collegamento con l'Ansa, in quel momento ho sopperito all'assenza di un mezzo molto tradizionale e ho capito che si poteva sopperire con twitter perché la platea prendeva nota e mandava in rete per pillole ciò che l'oratore diceva All'apparenza sembra un gesto da folle, da pazzi, da mitomani, senza nessunissimo tipo di utilità. perché lo si fa in tanti, invece quello era la spia di un mondo che cambiava, quelle persone che stavano lì, in quel momento mi davano una mano perché c'ero, ma in un altro momento possono diventare miei concorrenti. Il famoso Citizen jornalism, quindi questa cosa ha una doppia valenza. Tu mi chiedi se se nella mia attività di giornalista quali sono le opportunità e le minacce: gli Haters, gli odiatori  quelli che ti insultano che ti dicono che sei raccomandato e altre cattiverie. Aggiungo un'altra cosa: tutto quello che viene prodotto e arriva direttamente alla gente senza alcuna mediazione è una risorsa per il giornalista ma diventa anche un pericolo. È come voler legittimare che una persona abilissima con le mani che conosce perfettamente la bocca e i denti può fare il dentista pur senza avere una laurea in medicina. Non sono un difensore ad oltranza dell'ordine dei giornalisti però penso che preparazione e l'autorevolezza del giornalista serva a mediare e quello che arriva direttamente alla gente .


2. questo significa che, io che sono un esperto di comunicazione digitale e quindi anche esperto della loro manipolazione, non posso ritenermi un giornalista o qualcosa del genere?

allo stesso modo di come io non posso ritenermi un esperto di canali digitali. Cioè io posso essere un bravissimo giornalista ma non posso essere un social media manager. Le nostre professionalità dovrebbero convergere, dovremmo stipulare una grande alleanza tra noi e voi,  perché noi sostituiremmo voi malissimo e la stessa cosa fareste voi.


3. Chi opera nel settore della comunicazione digitale decodifica i messaggi della comunicazione politica.  Soffermarsi su twitter, I casi più eclatanti sono ormai quelli dei grandi leader politici che utilizzano questo strumento per comunicare ai propri elettori, ai propri cittadini, organizzativamente si direbbe "scavalcando l'ufficio stampa" che deve de-twittare o correre dietro al leader di turno. Come si posiziona il giornalista e l’ufficio stampa in questo processo?


E’ un altro aspetto di quella grande cosa che noi chiamiamo disintermediazione; la politica è basata sulla presenza di un leader che cerca a tutti i costi un contatto diretto con la gente, non provoca  soltanto lo scollamento con i corpi intermedi tipo i partiti, i sindacati, gli enti locali etc. Cambia il processo decisionale, una volta un leader politico prima di prendere una posizione seguiva un percorso che si sviluppava all'interno della vita del partito, adesso questo viene saltato. Il processo di disintermediazione, non riguarda soltanto il software, cioè quello che tu comunichi, ma riguarda anche l'hardware, cioè il mezzo che usi per comunicare, quindi tra le tante cose che vengono saltate a pié pari, in questo grande salto che il politico fa verso la gente, c'è anche de minimis l'ufficio stampa. 
Molto spesso lo scavalcamento dell’ufficio stampa è una risorsa per il giornalista che ha  l’opportunità di sapere direttamente ciò che pensa il politico, che non ha fatto la medicazione con l’ufficio stampa ma che ha fatto la mediazione con se stesso,  quello che dichiara non è la confidenza da ascensore. Il retroscena è ancora una cosa molto importante che permette di codificare veramente quello che pensa veramente il politico perché le sue prossime non stanno quasi mai su Twitter. 
L’utilizzo di Twitter da parte dei politici rappresenta per l’ufficio stampa da una parte un rischio ad altre parti un’opportunità esattamente come per i giornalisti. L’inserimento di un social media manager all’interno di un ufficio stampa oggi è fondamentale. Per esempio, durante la trasmissione “In Onda”  avevamo un team di risorse che all’interno della redazione si dedicavano a monitorare i social network più di quanto lo facessero con le agenzie di stampa.


4. La digital transformation ha cambiato la cultura della work life balance; con la cultura “del sempre connesso” la vita del giornalista com’è cambiata?


Anche in questo campo ci sono rischi opportunità per quanto riguarda la mia vita professionale posso permettermi alcuni giorni di staccarmi dall’iper connessione, questo ovviamente non può succedere quando ci sono eventi politici di grande rilevanza come per esempio le elezioni politiche  oppure durante una calamità naturale.
Il rischio dell’iper connessione riguarda soprattutto un freelance, magari ad inizio carriera che deve combattere per avere un pezzo e anche chi viene pagato a pezzi. 
Dal mio punto di vista l’iper connessione rappresenta anche un rischio sociale perché per quanto ti nutri di cose reali che stanno all’interno dei social network questo ti porta a vivere in un’altra dimensione. Una sorta di Truman show.


5. Tutte le categorie professionali utilizzano i social network per promuovere la loro professionalità, questo accade anche giornalisti? 


SI perché i social network aumento della platea sulla quale noi giornalisti siamo presenti. All’epoca del governo Monti lavoravo al Riformista che stava chiudendo; avevo da poco aperto l’account di twitter che ho subito utilizzato e mi ha dato la possibilità in quel preciso momento di farmi conoscere ad un pubblico più vasto. 
Diverso il ragionamento di quando bisogna lanciare un prodotto, per esempio ad “In Onda” abbiano utilizzato per la promozione digitale foto di situazioni e fatti accduti all’interno del programma. 
Un altro esempio è rappresentato dal Corriere della Sera con “Corriere Live” una trasmissione politica pensata soprattutto il web. 
Un giornale formato nel 1876 si rivolge al pubblico del web portando la sua autorevolezza e creando un linguaggio per la rete. Interviste a grandi personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport che vanno in diretta streaming. 
Tutti i leader politici e i personaggi dello spettacolo e dello sport sono venuti a Corriere Live, è più facile averli ospiti nel format digitale piuttosto che in trasmissioni televisive. 
C’è la fusione tra uno stile, un linguaggio e un’ autorevolezza plurisecolare unità e un prodotto confezionato per la contemporaneità;  è stato un binomio vincente. 
Anche questa esperienza rientra nella promozione di una professionalità e di un prodotto. 
I giornalisti veicolano i loro prodotti per fare azione di personal branding sulla loro professionalità e di branding sulla loro azienda per cui stanno lavorando in quel momento. Molti pensano che la rete sia la morte della cultura classica, io teorizzo una cosa contraria: I fratelli Karamazov nell’era di Twitter sarebbero stati più letti. Perché per esempio utilizzando i blog in un passano degli schemi di promozione che non sono utili solo per il manager, per il giornalista o per il professionista, ma anche per lo scrittore o per Mozart, perché i social media sono una platea su cui veicolare anche messagi classici.


6. Qual è la tua idea sui modelli di educazione digitale che dovrebbero essere costruiti.


La nostra educazione si sviluppa attraverso due canali fondamentali: la famiglia e la scuola. I nostri genitori e insegnanti sono arrivate alla rete dopo di noi mentre i nostri figli sono arrivati prima di noi.  Serve un’educazione digitale finalizzata a far comprendere che i comportamenti da agire sui social network non possono essere dissimili da quelli agiti nella vita reale. Anche perché le leggi valgono valgono nella vita reale e sui social. Sulla trasformazione tecnologica il figlio sa più del padre e l’alunno sa più dell’insegnante, quindi serve il sacrificio di una generazione.


7. Ritieni che nell’ambito del giornalismo e della comunicazione siano necessari percorsi di “formazione digitale”? e a chi?


La trasformazione tecnologica è molto diversa dalle vecchie  rivoluzione industriale anche perché è stata talmente rapida che ha sorpreso un’intera classe di lavoratori che la deve subire prima di andare in pensione. 
Quindi serve formazione.
Per esempio il cameraman non può avere più uno stile classico di riprese ma deve cambiare il suo modo di lavorare perché poi video girano su tutti i devices,
Il Giornalista che gira un pezzo fuori dalla redazione deve tenere conto di come verrà utilizzato sui social, quel pezzo non andrà solo in TV ma su tutta la rete.
Serve la formazione fatta da professionisti esperti del settore che sappiano come gestire il cambiamento della Digital trasformai, ma serve forse ancora di più la voglia di farsi formare. Perché, secondo me, anche all’interno dell’ambito del giornalismo e della comunicazione c’è una grande  resistenza rispetto ai processi di trasformazione del lavoro che ormai sono cambiati. Una volta un importante giornalista di un’importante testata si poteva alzare alle cinque di pomeriggio perché ormai i fatti li poteva recuperare, e iniziare la giornata da quel momento; oggi invece bisogna essere attenti 24 ore su 24, una volta  compravamo il giornale di carta in edicola oggi il giornale vive di vita propria 24 ore su 24 sulla rete. 
Una redazione deve avere dei centri di raccolta e coordinamento attivi 24 h perché la tempestività non è solo per avere la notizia prima degli altri e pubblicarla la mattina dopo, ma anche per pubblicarla prima in rete e questo significa arrivare prima degli altri nel momento stesso in cui il fatto si sviluppa. 
Infatti i meccanismi delle turnazioni all’interno delle redazioni sono a ciclo continuo.

Mauro Bombardieri e Tommaso Labate





domenica 12 maggio 2019

Master Europrogettazione a Bruxelles: Mauro Bombardieri da ex corsista della Special School ad autore.

Intervista a Mauro Bombardieri a cura di Sofia Fiorini

Qual è stata per te la spinta a iscriverti al Master, perché guardavi all’Europa come ad un’opportunità che avrebbe potuto fare al caso tuo?
Ero interessato a un’esperienza di studio internazionale e ad approfondire le mie conoscenze in termini di formazione sui bandi europei, volevo conoscerne i contenuti e i dettagli. Soprattutto mi interessava scoprire la realtà della relazione tra commissione europea e partner internazionali. Direi che le spinte principali per partecipare al master riguardavano i contenuti e la gestione delle relazioni dell’euro-progettazione. Ho sentito di dovermene occupare in un modo più accurato, che andasse oltre la superficie. Tanti parlano di queste cose, ma pochi hanno competenze reali.
Come ti aiutato il Master in ciò che fai oggi?
Il mio lavoro attuale non è lo stesso di quando mi sono iscritto al master nel 2016. Oggi lavoro nell’Ateneo pontificio Regina Apostolorum, nel dipartimento di sviluppo di relazioni istituzionali, e sono il responsabile dell’ufficio per l’attività di promozione.
Il knowledge che ho acquisito al master è confluito poi in una parte del libro che ho scritto, Chief Digital Officer. Gestire la Digital Transformation per persone e organizzazioni. Una parte del manuale, dedicato al cambiamento organizzativo seguìto alla digital trasformation, affronta appunto il tema degli strumenti di formazione della comunità europea, quei progetti di formazione che sono finanziati proprio dai bandi europei. Come si può gestire il cambiamento, se non con la formazione?
Secondo te, cosa possono fare le Istituzioni Europee per chi lavora nel campo della cultura, del sociale, dell’innovazione. Ci sono risorse?
Credo che le Istituzioni Europee potrebbero promuovere di più il concetto di Europa attraverso attività inerenti alla formazione, al benessere pubblico, ma anche dal punto di vista politico ed economico. Le risorse stanziate e da stanziare in Europa ci sono, ma in Italia vengono usate poco e male. L’informazione è scarsa, così come la conoscenza delle modalità di accesso ai bandi e al loro utilizzo. In questo senso, l’esperienza del master permette di verificare personalmente come funziona il progetto europeo e di approfondire anche secondo quali modalità si stilano i bandi. Le istituzioni dovrebbero cercare di istituire partnership con enti come il vostro per promuovere la conoscenza dei bandi. Le istituzioni hanno il compito, oltre che di stanziare risorse, anche di promuoverne la conoscenza, per far sì che la possibilità di accedervi sia reale e non solo virtuale. E per promuovere ciò, le istituzioni hanno bisogno di competenza e professionalità nelle figure di chi diffonde questo tipo di informazioni.
Cosa ti sei portato a casa dall’esperienza del Master e dall’incontro coi docenti?
Sicuramente il master mi ha permesso di avere una visione più approfondita rispetto a come si muove la commissione europea per la gestione dei finanziamenti e mi ha dato una panoramica internazionale dei progetti di formazione.
Per me è stata fondamentale nell’apprendimento la parte di workshop. Ricordo di aver scelto, tra le varie proposte, per la mia esercitazione sui bandi reali un progetto per diffondere la cultura dell’integrazione europea. Esercitarsi su un tema così interessante, come per me in questo caso era la richiesta di finanziamenti per attività che promuovessero il concetto di cittadinanza europea, è stato senza dubbio stimolante.
I docenti sono tutti professionisti di grande esperienza, con cui sono rimasto in ottimi rapporti. Soprattutto è stato utile per noi il fatto che facessero parte della commissione europea: ci hanno saputo spiegare nel dettaglio la relazione tra team di progetto e commissione nella fase di richiesta del finanziamento.
Poi è stata una bellissima esperienza dal punto di vista umano, ho conosciuto tantissime persone di realtà lavorative diverse, provenienti da vari paesi di Europa. Per me è stata un’occasione di arricchimento culturale e personale eccezionale.
Che cosa ci vuole per scrivere un progetto – di formazione, e non solo – vincente?
Ciò di cui è strettamente necessario assicurarsi per garantire successo al proprio progetto è la capacità di individuarne le ricadute positive e di renderle dimostrabili. Il progetto deve implicare, già dal nucleo, l’effetto delle proprie ricadute sociali positive. È chiaro che più questi effetti positivi sulla comunità sono tangibili ed evidenti, più il progetto risulterà vincente. È ovvio poi che sia necessaria un’ottima conoscenza dei meccanismi di funzionamento dei bandi e delle istituzioni europee. Il master dà un ottimo inquadramento a riguardo. In linea generale, un buon progetto ha tra le sue premesse un’alta qualità di pianificazione e professionalità delle parti.
Cosa consiglieresti a chi si affaccia per la prima volta all’universo dell’euro-progettazione?
A chi comincia adesso ad occuparsi di progetti europei e vuole farlo in modo serio, consiglio indubbiamente di fare questo master e di farlo a Bruxelles. La dimensione di scambio culturale è maggiore che non nelle sedi italiane, il tasso di internazionalità è più alto. Fare il master a Bruxelles offre poi la possibilità di sentirsi in prima persona parte della comunità europea, c’è maggiore facilità di scambio. Un consiglio per chi vuole occuparsi di questo settore è anche di non avventurarsi a fare progettazione senza avere knowledge. Bisogna dotarsi di strumenti validi e di competenze reali.

Chief Digital Officer Gestire la Digital Transformation per Persone e Organizzazioni

Digital Trasformation e sviluppo.

Intervista a Mauro Bombardiero a cura di Gaetano Marando.

Da più di dieci anni è in atto una rivoluzione digitale che sta cambiato il nostro modo di comunicare, interagire e partecipare alla vita quotidiana. Con l’avvento del Web 2.0, che ci permette di relazionarci istantaneamente con utenti di ogni parte del mondo, la vita sociale e professionale di ognuno di noi è destinata a mutare. Si tratta di una vera e propria rivoluzione dei mercati e della società civile che sta imponendo la presenza di nuove competenze e figure professionali, tra le quali spicca quella dello Chief Digital Officer, una figura indispensabile per avviare e guidare il processo di trasformazione di ogni organizzazione. Per capire come questa professione operi all’interno delle imprese e comprendere come la Digital Transformation stia cambiando le nostre vite, abbiamo dialogato con il manager originario di Marina di Gioiosa Ionica Mauro Bombardieri, autore, assieme al collega Alessandro Prunesti, del libro “Chief Digital Officer. Gestire la Digital Transformation per persone e organizzazioni”.
Come nasce la vostra passione per il mondo digitale e in che modo la Digital Transformation ha cambiato la vostra vita?
Io e Alessandro ci siamo incontrati molti anni fa in un’aula di formazione e la digitalizzazione ci ha uniti in una relazione professionale che ha fatto nascere una grande amicizia. È stato Alessandro che mi ha esortato a raccontare le nostre esperienze professionali e personali al fine di entrare in relazione con i lettori. Entrambi abbiamo maturato questa passione attraverso una profonda riflessione sull’analisi, sulla comprensione e sulla gestione delle organizzazioni nell’era della rivoluzione digitale. È stata la Digital Transformation a cambiare la nostra vita guidandoci verso nuovi orizzonti professionali e internazionali, determinando così un processo di evoluzione personale.
È da pochi giorni uscito il vostro libro “Chief Digital Officer”. Come nasce questo trattato e a chi si rivolge?
“Governare la paura dell’ignoto” è stata una delle fonti di ispirazioni di questo libro. Il testo si rivolge a tutti coloro che intendono comprendere le dinamiche della Digital Transformation e il cambiamento che si è determinato all’interno delle organizzazioni e delle relazioni. In particolare, vuole essere un vademecum per determinate categorie professionali come i manager aziendali e della pubblica amministrazione, i professionisti e tutte quelle figure che operano nel mondo del giornalismo, della comunicazione politica e dell’istruzione.
La Digital Transformation di cui parla non è soltanto una rivoluzione tecnologica, ma soprattutto culturale. Cosa deve aspettarsi un territorio periferico come quello della Locride da questa rivoluzione?
La Locride potrebbe aspettarsi un cambiamento indotto dai vari operatori di mercato per innovare  modelli e metodologie di lavoro. Per esempio, la Digital Transformation potrebbe avere un impatto molto positivo sull'industria del turismo. Utilizzando semplici strumenti di marketing digitale è possibile raggiungere qualsiasi obiettivo in qualsiasi punto del pianeta, superando barriere e limiti che sono tipici della periferia. Questo vale anche per la distribuzione e l’export di prodotti alimentari tipici. La valorizzazione di turismo, enogastronomia e cultura, accompagnata da una promozione dei luoghi di interesse e delle tradizioni, favorirebbe certamente tutto il comparto dell’industria culturale calabrese. Questo approccio è indispensabile per innovare l'offerta di prodotti e servizi locali, individuando nuovi segmenti di mercato su cui investire. Per raggiungere questo obiettivo, naturalmente, si deve innanzitutto investire sia nella formazione manageriale sia in quella scolastica. Pertanto è necessario:
  • introdurre la tecnologia e il digitale nelle scuole affinché i ragazzi imparino non solo a usare i nuovi dispositivi ma anche a utilizzare un nuovo metodo di pensare e ragionare;
  • sviluppare la capacità di lavorare in gruppo, anche a distanza;
  • insegnare a gestire le informazioni sui nuovi media;
  • insegnare a individuare le minacce e i rischi delle nuove tecnologie, sviluppando conoscenza e fornendo strumenti di gestione e di “protezione”;
  • insegnare a lavorare in un ambiente virtuale: il posto di lavoro fisico non sarà più come lo si intende oggi, perché si lavorerà sempre più spesso da remoto in modalità smart working, connettendosi con gli altri colleghi attraverso le piattaforme di social collaboration.
In che misura questo cambiamento incide e inciderà sulle nostre vite quotidiane?
La Digital Transformation è un processo in grado di generare sviluppo. Ha maturato in noi quella consapevolezza che offline e online non si sostituiscono bensì si arricchiscono e integrano reciprocamente. Inoltre, questa rivoluzione ha cambiato radicalmente il modo in cui ci relazioniamo con i brand, trasformando il modo in cui ci si avvicina alla scelta di un prodotto o servizio. Non solo, il digitale ha modificato e articolato in modo più complesso le relazioni interpersonali.
Quali modifiche procedurali deve aspettarsi la Pubblica Amministrazione dalla Digital Transformation e come può cambiare il rapporto delle periferie con la comunità Europea?
Il cambiamento organizzativo dei processi di lavoro, delle relazioni professionali e interpersonali e i processi di integrazione tra tecnologia, piattaforme digitale e persone impresso dalla Digital Transformation sta per cambiare radicalmente il nostro mondo. Per questa ragione, l’Unione europea ha varato una strategia di sviluppo che si articola in tre priorità e si prefigge di rilanciare l’economia e gestire la globalizzazione e la crisi economica rendendo l’economia europea nuovamente competitiva attraverso telecomunicazioni, servizi, energia e nuove tecnologie verdi per lo sviluppo sostenibile. Le tre priorità in questione sono:
  1. crescita intelligente: sviluppare la conoscenza, l’innovazione, l’istruzione e la società digitale;
  2. crescita sostenibile: promuovere un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva;
  3. crescita inclusiva: promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione, che favorisca coesione economica, sociale e territoriale
La triangolazione tra Pubblica Amministrazione, periferie e Comunità Europea può arricchirsi attraverso l’investimento sulla prima priorità, perché è quella più vicina e interconnessa con i temi della Digital Transformation. Ciò significa migliorare la qualità dell'istruzione, potenziare la ricerca in Europa, promuovere l'innovazione e il trasferimento delle conoscenze in tutta l'Unione, utilizzare in modo ottimale le tecnologie dell'informazione e della comunicazione e trasformare le idee innovative in nuovi prodotti e servizi, che possano stimolare la crescita e creare posti di lavoro. Per raggiungere l’obiettivo le azioni dovranno essere rivolte a tutti gli operatori del mercato e a tutti gli utenti, concentrandosi su aree di intervento molto definite e attraverso modelli e strumenti di lavoro che sono declinati i maniera dettagliata nel libro.

venerdì 5 aprile 2019

Modelli di educazione digitale, comportamenti dei nativi digitali e dei loro genitori

Intervista a Patrizia Mattioli, psicologa e psicoterapeuta,
Socio Ordinario della Sitcc (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). 
Ha lavorato per venticinque anni come consulente scolastico nella scuola superiore, collabora con il Laboratorio di Psicologia Costruttivista Post razionalista di Roma.
Ha fondato l'Associazione Comunicascuola con cui ha pubblicato il sito www.comunicascuola.it
E’ autrice di numerosi articoli pubblicati in Internet e su riviste di settore.
Scrive sul suo blog www.patriziamattioli.org, è blogger per Il Fatto Quotidiano www.ilfattoquotidiano.com/blog/pmattioli.

In questa epoca caratterizzata dai processi di Digital Transformation, che sta attraversando tutti i settori della società civile, si sono creati modelli di educazione digitale finalizzati a individuare opportunità e minacce nell’uso dei social media?

Internet e la rivoluzione digitale hanno dato vita a tanti mondi paralleli rispetto a quello reale in cui è possibile muoversi “restando fermi”. Questo favorisce  una percezione di non esposizione che si è presto rivelata distorta, e ha messo in evidenza che alle grandi opportunità in rete corrispondono, al pari del mondo reale, alcuni rischi che è bene conoscere e dai quali è bene tutelare chi naviga in internet, soprattutto con riferimento ai frequentatori più giovani.
Per questo si è posta la necessità di progettare percorsi di educazione digitale, mirati a formare le nuove generazioni a un utilizzo adeguato e consapevole  dei social network e della rete in generale.
Alla quantità di giovani da educare non corrispondevano però sufficienti formatori, ma piuttosto educatori poco preparati a gestire gli strumenti digitali che i ragazzi manovravano benissimo.

Sono fioriti perciò molti corsi per gli adulti, persone della famiglia o legate alla scuola, vicini a bambini e adolescenti, con l’obiettivo comune di insegnare a vivere nella rete, così come si insegna a vivere nella realtà e di accompagnare il bambino o l’adolescente in maniera adeguata all’età, nel percorso di esplorazione e messa in guardia dalle insidie che vi potrebbero incontrare.
I corsi hanno risposto ad un esigenza sentita molto dai genitori, dagli educatori e dagli insegnanti, che chiedevano aiuto alla scuola e agli specialisti perché preoccupati di vedere i figli muoversi velocemente in spazi e con strumenti a loro sconosciuti.

I percorsi di formazione, se pur proposti da soggetti diversi con punti di vista diversi (polizia postale, psicologi, informatici, ecc..), concordano su alcuni punti comuni.
Il primo è che tutti gli adulti, soprattutto quelli di riferimento per i giovani, devono avere familiarità con la rete e le tecnologie: conoscere è il primo passo per comprendere ed educare i figli o gli studenti ad un approccio consapevole nell'utilizzo del web
Il secondo punto condiviso è che l’educazione digitale deve iniziare molto presto, perché i bambini entrano molto presto in contatto con gli strumenti digitali e con il mondo virtuale e riescono velocemente, a dispetto dei divieti imposti, ad iscriversi ai social network. Più della metà di questi bambini naviga in rete senza la presenza di un adulto e molti rischiano di entrare in contatto con contenuti non adatti a loro, se non anche di fare incontri pericolosi. Il fatto che apprendano velocemente ad usare la tecnologia non significa che siano in grado di usarla correttamente.
L’atteggiamento da assumere non è diverso da quello che si ha con il mondo reale: non manderemmo infatti mai un bambino di 8 anni in giro da solo in luoghi che non conosce, senza avergli insegnato nulla.

Il terzo punto in comune riguarda l’importanza di creare regole condivise.
È importante che i più giovani conoscano e utilizzino le risorse delle tecnologie e della rete, così come è importante che queste lascino comunque spazio alle attività tradizionali. 
Nello spazio virtuale si corre facilmente il rischio di essere fagocitati, di perdere il senso del tempo che passa. Il tempo di utilizzo va perciò regolamentato. Vietare l’uso di questi strumenti potrebbe sortire l’effetto contrario. Meglio dunque concordare insieme il tempo da dedicare alla navigazione, magari iniziando con esplorazioni congiunte per illustrare e mettere in guardia i più giovani dai pericoli del web. E’ importante, da questo punto di vista, condividere regole nelle quali anche il bambino possa riconoscersi, senza sentire la necessità di trasgredire.

Un altro punto importante riguarda la privacy: è importante che il bambino capisca subito i motivi per i quali è importante non fornire in rete informazioni personali, visto che alla percezione individuale di non esposizione, si contrappone un ecosistema di piattaforme e siti web che possono acquisire e conservare le nostre informazioni.
Le relazioni che si costruiscono nei social network non sono molto diverse da quelle del mondo reale: anzi, ne costituiscono un’estensione virtuale. Seguono le stesse regole delle relazioni reali e come tali possono essere affrontate nei percorsi educativi/emotivi con gli adulti. Questa è la direzione di prendere, senza dimenticare che i nostri figli riusciranno comunque ad essere sempre più veloci e ad avere maggiore dimestichezza con gli strumenti tecnologici.

Sarebbe necessario introdurre l’"educazione digitale” nelle scuole?

La scuola è il luogo per eccellenza adibito alla formazione, educazione e divulgazione della cultura. Come tale può essere uno spazio importante per l’erogazione della cultura digitale rivolta ai bambini e ai ragazzi.
La scuola, tuttavia, non può essere l’unico soggetto attivo: il percorso di educazione digitale deve iniziare molto presto. Dobbiamo considerare infatti che non tutti i bambini frequentano il nido o la scuola materna, mentre tutti i bambini ormai entrano in contatto con la tecnologia molto presto, a volte già molto prima dei tre anni. E’ dunque fondamentale, oltre che giusto, che anche la famiglia sia preparata a trasmettere questo tipo di educazione ai propri figli.

Secondo i dati dell’Istat le famiglie con figli minori sono le più tecnologiche: più dell’80% possiede almeno un computer e una connessione Internet in casa e oltre il 90% di esse possiede uno smartphone, o comunque un device con possibilità di connessione a internet. Nonostante questo spesso i genitori dei nativi digitali non sembrano in grado di  educare al digitale i loro figli che imparano a utilizzare videogiochi, Internet e social network soprattutto grazie ad amici, compagni di classe, o fratelli più grandi.
E’ importante che l’educazione digitale rientri all’interno del progetto educativo del bambino, che l’apprendimento del linguaggio digitale inizi in famiglia e prosegua poi a scuola, che gli insegnamenti siano propedeutici e che ci sia integrazione tra le due istituzioni nel percorso di alfabetizzazione digitale.
A volte si nota una specie di dissociazione tra atteggiamento e comportamento da parte degli adulti. Sia i genitori che gli educatori e gli insegnanti usano molto Internet, ma temono il modo in cui possono utilizzarlo i loro figli o i loro studenti. Inoltre capita che i figli vengano lasciati a navigare da soli adducendo i più svariati motivi (tempo, stress,..).
Da questo punto di vista l’educazione digitale, come accade a volte con l’educazione in genere, mette in luce le difficoltà della scuola o della famiglia  di costruire contesti regolamentati condivisi, con il risultato di lasciare a volte le cose al caso per poi lamentare la diseducazione e il non rispetto delle regole. 
La tecnologia digitale non può sostituire la relazione umana, così come era già accaduto con il mezzo televisivo.


Quali sono i comportamenti più comuni dei nativi digitali? e dei loro genitori? Questi nuovi strumenti generano conflitti familiari?

Per i nativi digitali computer, smartphone, linguaggio digitale,  social network e connettività globale, sono parte integrante della quotidianità. 
Con e attraverso di essi parlano con gli amici in ogni momento, fanno foto, video, si scambiano musica e immagini: una vita senza di essi non sarebbe immaginabile. Questo ha un impatto nel rapporto con quegli adulti, che invece hanno difficoltà a far entrare la tecnologia nella loro quotidianità e/o non ne comprendono appieno le potenzialità.
C’è sicuramente un differente utilizzo della tecnologia e della rete da parte degli adulti che tendono ad usare internet prevalentemente come una grande enciclopedia a cui attingere, rispetto ai giovani e giovanissimi che lo usano in modo molto più attivo e interattivo. Internet per loro è soprattutto un luogo di socializzazione, partecipazione e condivisione. E’ un ambiente che crea nuove forme di comunicazione, nuove forme di stimolazione dell’intelligenza, nuovi modi di costruire la conoscenza e le relazioni.
I social network hanno un grande potenziale aggregativo per le persone in cerca di contatti, di condivisione, di appartenenza, di approvazione, che alimentano la sicurezza e l'autostima grazie alla visibilità. Sono irresistibili per un adolescente che sfrutta il virtuale per sviluppare, allenare, esprimere parti di sé magari meno espresse nella quotidianità. Non sempre, ma comunque spesso, questo ha una ricaduta positiva sulla vita reale.

Da una parte alcuni genitori assumono atteggiamenti diffidenti verso la tecnologia e la rete anche perché tendono ad attribuire ad esse le difficoltà che osservano nei loro figli. L'atteggiamento diffidente impedisce loro di conoscere i mezzi e i luoghi virtuali frequentati dai figli, così spesso non hanno un'idea di cosa essi facciano mentre sono concentrati sul cellulare, tendendo a considerare in modo molto critico il suo utilizzo.
All’opposto, ci sono i genitori che hanno con la tecnologia lo stesso rapporto che rimproverano ai figli, rafforzando di fatto il comportamento che criticano. Tutti condividono la preoccupazione che l'utilizzo della rete possa portare nel tempo i più giovani alla restrizione delle relazioni con gli altri, visto che l’esperienza virtuale viene, spesso erroneamente, percepita come più agevole rispetto alla realtà, con apparentemente minori rischi rispetto all'esposizione, al giudizio, al coinvolgimento, all'impegno. 

Il tema dei rischi della rete è molto attuale. Ci si domanda quale sia l'impatto delle tecnologie sul sistema nervoso umano in generale, e su quello delle fasce più giovani in particolare, e se ci sia differenza tra la generazione digitale e quelle precedenti. Si formulano teorie sul comportamento e sull'apprendimento non lineare, caratterizzato dalla capacità cosiddetta multitasking, che prevede la messa in pratica di più operazioni contemporaneamente, così come è possibile fare sul web e come sembra riescano a fare i nativi digitali anche se non è ancora chiaro quali conseguenze questo abbia sul piano dell’identità personale.
Oggi il cellulare è ritenuto uno strumento utile in molti ambiti, anche ai fini didattici: molti insegnanti invitano gli alunni a visitare siti o pagine precise in classe, durante la lezione; o li invitano a farlo a casa. I ragazzi lo utilizzano spesso mentre fanno i compiti per ricercare materiali, fare traduzioni, io stessa ho utilizzato in più occasioni la diffusione dello smartphone tra i ragazzi, per somministrare questionari e rilevare sondaggi (Mattioli, 2015, 2017).
In ultima analisi possiamo dire che l’incomunicabilità tecnologica ricalca l’incomunicabilità generazionale, e la rete è il nuovo spazio in cui si gioca la trasmissione dei valori e delle regole durante il percorso educativo e in cui si realizza il conflitto familiare che spesso accompagna la fase adolescenziale dei figli.

Su quali aspetti dovrebbe puntare la formazione per avere un effetto più incisivo?

Dobbiamo considerare che le esperienze tecnologiche sono contemporaneamente in grado di supportare l’apprendimento e il miglioramento della qualità della vita, ma anche di contribuire alla creazione di comportamenti disfunzionali. Un progetto formativo deve essere in grado di fornire strumenti per favorire ovviamente la direzione più costruttiva. Per farlo è importante conoscere, una volta acquisite le competenze tecniche, quali piani vengono stimolati dalla navigazione per comprenderne a pieno la portata e indirizzarla nella direzione voluta.

E’ riconosciuto che le esperienze virtuali sono in grado di stimolare le capacità cognitive come l’attenzione, la percezione, la memoria, ecc.. e di stimolare la possibilità di sperimentare, riconoscere e gestire quelle emotive.
Uno degli elementi su cui secondo me va posta la priorità sta proprio su questo: l’analisi delle emozioni che il sistema digitale stimola, che rappresentano uno dei punti cruciali dell’esperienza virtuale sia nei videogiochi che nei social network.
Dobbiamo avere ben chiaro il fatto che le persone privilegiano le situazioni che li fanno sentire meglio, e se queste prevalgono nel mondo virtuale rispetto alla vita reale, saranno le preferite.

Consideriamo ad esempio i videogiochi: essi rappresentano spesso motivo di conflitto tra genitori e figli, soprattutto nella prima parte dell’adolescenza.
I genitori si attivano perché percepiscono l’isolamento dei figli che dedicano tempo al videogioco piuttosto che alle uscite con gli amici o ai compiti. Dovrebbero sapere però che gli attuali videogiochi difficilmente isolano. Piuttosto promuovono la socialità, anzi spesso si basano proprio su di essa. In molti giochi in rete, ad esempio, un giocatore muove il suo personaggio insieme ad un gruppo di altri giocatori che collabora con lui per raggiungere lo scopo prefissato e ogni giocatore può contare a rotazione sulla stessa collaborazione.
Come scrivono Stefano Triberti e Luca Argenton (2013), che hanno fatto un’approfondita analisi psicologica dell’uso dei videogames, il gioco riesce ad emozionare perché stimola istinti innati come l’esplorazione, il piacere per la distruzione, il desiderio di accumulare, di riempire uno spazio vuoto o di sentirsi un dio. Così vengono attivate reazioni emotive pari a quelle vissute a partire da stimoli reali: senso di capacità, di competenza, di adeguatezza, di realizzazione personale, ecc... L'attività ludica mette alla prova il giocatore spingendolo al limite delle proprie capacità e motivandolo continuamente a superare gli altri e se stesso.
Nella vita quotidiana è pratica comune immaginare di essere qualcun altro: i bambini nei loro giochi, gli attori su un palco o davanti all'obiettivo di una telecamera. Chi ha un po' di immaginazione mette in pratica quello che rappresenta un gioco identitario.
Le realtà virtuali e i videogiochi hanno aperto nuove frontiere per la sperimentazione di se stessi: i primi videogiochi, costituiti soprattutto da simboli e luci, si sono evoluti trasformandosi in storie, fatte di personaggi, ambienti, incontri, emozioni e colpi di scena, dove ognuno può creare la sua sceneggiatura ed essere protagonista.

Per questo, contrariamente a quello che comunemente si crede, la rete non è il luogo in cui il navigatore si muove in modo passivo e dove rimane vittima di regole virtuali, ma è un luogo che offre stimoli attivi e complessi che creano reazioni altrettanto attive e complesse. Questa complessità deve essere conosciuta e compresa per poterne sfruttare al massimo le potenzialità sul piano dell’apprendimento e dell’educazione. 

Tutto ciò dovrebbe avere uno spazio importante nella formazione. E i settori principali in cui realizzarla restano, secondo me, sempre la scuola e la famiglia. 
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